Un capitano di ventura tra storia e memoria. Anichino di Bongardo nel trecento piemontese
L’autore
Ivana Melloni, originaria del saluzzese, vive tra Garbagna (AL) e Torino, dove per anni ha insegnato lettere negli Istituti Tecnici Commerciali e nel Liceo Economico Sperimentale. Con l’Istoreto e l’I.T.C. “Quintino Sella” di Torino ha contribuito alla costituzione della Rete degli Archivi della scuola, alla pubblicazione dei relativi lavori e alla realizzazione di corsi di formazione per l’uso didattico degli archivi scolastici. Nell’ambito del Progetto Storia ’900 – Polo Centro di Torino ha partecipato nel 2005 all’indagine “Il senso del tempo – Indagine sui giovani e la storia al passaggio nel nuovo millennio”, con le scuole aderenti e con la consulenza scientifica del Corep.
Per le Edizioni Joker ha pubblicato Giovani di Garbagna alla battaglia di San Martino. 24 Giugno 1859 (2011), Un destino chiamato Nilo (2015), Garbagna. Un borgo tra Liguria e Piemonte (2017).
Ivana Melloni
Un capitano di ventura tra storia e memoria. Anichino di Bongardo nel Trecento piemontese
ISBN-13: 978887536462-5
2021
pp. 160
€ 17,00
I testi
L’autrice scopre casualmente che il capitano di ventura Hanneken von Baumgarten, in Italia Anichino di Bongardo, che nel 1375 aveva venduto ai Fieschi di Genova il piccolo borgo tortonese di Garbagna, era quello stesso condottiero che, qualche anno prima, aveva messo a ferro e fuoco tanti paesi del marchesato di Saluzzo e la vicina città di Savigliano. Colpita dalla coincidenza che legava la sua terra natale, il saluzzese, alla sua terra di adozione, il tortonese, decide di indagare. Per quali circostanze e motivi un condottiero tedesco, famoso in tutta Italia, aveva usurpato al Vescovo di Tortona un borgo allora così isolato e sconosciuto?
L’autrice intraprende quindi un viaggio nella storia del Trecento, secolo tormentato da fame, guerre ed epidemie ma anticipatorio del nostro grande Rinascimento, e nello stesso tempo un viaggio nella memoria personale tra saluzzese e tortonese, che suscita ricordi dimenticati ed emozioni scaturite dalla ricerca. Testimone per le sue terre del cuore, la montagna per eccellenza, il Monviso.
* * *
In un giorno imprecisato di metà secolo, il tedesco Anichino di Bongardo con i suoi uomini dall’alto di un passo alpino scrutava l’orizzonte.
Non abbiamo suoi ritratti e non ne conosciamo quindi l’aspetto. Non avrà mai l’onore di un ritratto da parte di un pittore famoso, come nel caso di Giovanni Acuto, cui Paolo Uccello dedicherà l’affresco Monumento equestre, conservato in Santa Maria del Fiore a Firenze Possiamo solo immaginarlo giovane, sano e ambizioso, pieno di speranze e aspettative, come si conveniva a un capitano di ventura dell’epoca.
Il fatto è che Anichino sembra non possedesse affatto la statura di certi condottieri, violenti e sanguinari, adeguati al ruolo, come lui, ma carismatici, capaci anche di sottigliezze diplomatiche o di capacità politiche. Uno tra tutti John Hawkwood, conosciuto in Italia come Giovanni Acuto, protagonista di primo piano in quasi tutta la storia d’Italia della seconda metà del Trecento. A una prima consultazione delle cronache dell’epoca, Anichino emerge come un uomo le cui azioni erano finalizzate più al bottino che al potere, e l’Italia quindi poteva costituire per lui un’eccellente occasione. Si ripromette di verificare.
In contemporanea si stava svolgendo una vicenda umana di genere e spessore ben diversi.
Un altro viaggiatore più volte aveva l’occasione di affacciarsi dall’alto di un passo alpino, spesso il Moncenisio, e di osservare l’Italia che immaginava stendersi ai suoi piedi.
Il viaggiatore si chiamava Francesco Petrarca, l’intellettuale e poeta aretino di nascita ma cittadino del mondo.
Nato nel 1304, era ancora bambino quando il padre aveva trasferito la famiglia a Carpentras, in Provenza, vicino ad Avignone, dal 1309 sede del papato. Coltissimo, poliglotta, cultore appassionato della classicità, raffinato poeta e collezionista di libri, (sua fu la prima biblioteca privata), godeva in quella metà del 1300 di fama internazionale. Innumerevoli viaggi lo condurranno a Parigi, Gand, Liegi fino ad Aquisgrana, Colonia e Lione. Ambasciatore del papa, dal 1337 preferiva vivere a Vaucluse, piccolo e solitario borgo nelle vicinanze di Avignone, disgustato da quell’ambiente corrotto e insidioso tanto da fargli maturare nel 1353 il ritorno definitivo in Italia.
Inserito a pieno titolo nel circuito della cultura europea, la sua sola presenza dava prestigio alle corti che lo ospitavano, anche in Italia: Roma e Milano, Firenze e Venezia, Napoli e Padova, Parma e Pavia, Verona e Treviso, ricoprendo ovunque incarichi prestigiosi.
La sua straordinaria rete internazionale di conoscenze, stupefacente anche per il nostro tempo, unita alla vastissima cultura, lo collocava, rispetto ai suoi contemporanei, in posizione privilegiata. Primo ad aprirsi a una dimensione cosmopolita della politica, superando l’orizzonte municipalistico.
Nell’Italia del 1300, proprio quella in cui opera Anichino, lacerata dalle discordie degli Stati italiani, che vede la dissoluzione del comune e la nascita della signoria, Petrarca era in grado di osservare i problemi italiani da una prospettiva europea, sovranazionale, auspicando all’Italia, che amava profondamente e che vedeva così dilaniata, un destino, per quanto più ideale che reale, di pace. Dal cuore gli sgorga quindi la sua più appassionata e famosa canzone politica, che fu anche la prima patriottica della nostra letteratura, «Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno» (invano).
Il poeta si rivolge ai signori d’Italia, cui la Fortuna ha assegnato il governo dell’Italia. Che ci fanno qui tante truppe provenienti dall’estero?, chiede loro, soprattutto tedesche? forse perché il suolo italiano si tinga di sangue straniero? Vi illudete. I mercenari non verseranno il loro sangue per l’Italia. Hanno un cuore prezzolato, non sensibile ai valori quali la fedeltà o l’amore. A che serve allora lo schermo delle Alpi che la Natura pose tra noi e la rabbia tedesca? Se ciò accade per colpa vostra, chi ci salverà? Grazie a voi e alla vostra folle ingordigia, devastano la parte più bella del mondo. Non vi accorgete da tante esperienze che al minimo rischio poi si arrendono? ma il sangue italiano scorre davvero! E amaramente conclude: Canzone, troverai buona accoglienza solo tra i pochi uomini che amano il bene. Dì loro: «Chi m’ assicura (protegge)? I’ vo gridando: Pace, pace, pace».
Questa canzone fu composta probabilmente tra la fine del 1344 e l’inizio del 1345, in occasione della guerra che quell’inverno aveva opposto le truppe estensi a quelle di Filippino Gonzaga, alleato con i Visconti, per il controllo di Parma. I contendenti e i rispettivi alleati si erano tutti serviti di truppe mercenarie attive in Italia.
Il loro affollamento si spiegava anche solo guardando una carta politica dell’epoca.
In Italia erano presenti sei stati territoriali: la repubblica di Venezia, il ducato di Milano prima sotto i Visconti poi sotto gli Sforza, la contea poi ducato di Savoia, la repubblica, poi signoria, di Firenze, lo Stato pontificio, la cui sede era stata trasferita nel 1309 ad Avignone, il regno di Napoli, prima sotto gli angioini poi sotto gli aragonesi. A questi si aggiungevano molti stati minori, spesso costretti dalle circostanze ad allearsi tra loro o a combattersi per difendere il proprio territorio e i propri interessi commerciali dai vicini confinanti: il comune poi signoria di Bologna, il dogato di Genova, le signorie di Mantova, Forlì, Rimini, Urbino, Perugia, le repubbliche di Siena, di Pisa, di Lucca, il principato d’Acaia, il marchesato di Saluzzo e il marchesato del Monferrato, e non sono tutti. Quindi, fazioni interne, sortite dal proprio territorio per danneggiare quello del vicino, assedi, imboscate, battaglie… erano all’ordine del giorno, tanto che in molti casi gli anni trascorsi in pace si potevano contare sulle dita di una mano.
Ed ecco spiegata la presenza di tanti mercenari, italiani e stranieri, tra i quali il numero maggiore era costituito da tedeschi. Si calcola che tra il 1320 e il 1360 calarono in Italia circa 700 comandanti tedeschi, che movimentavano oltre 10.000 uomini.
Gran parte di loro apparteneva alla nobiltà tedesca, soprattutto alla piccola nobiltà detta Adel, originata dai Ministeriali, i funzionari regi. Nel passato i funzionari dei signori feudali erano uomini non liberi o semi – liberi ma poi, aspirando per i loro servizi a una patente di nobiltà, erano diventati Freiherr cioè liberi baroni.
Era di sicuro un miglioramento sociale a cui spesso però non corrispondeva una altrettanta fortuna economica. Molti loro figli, specie se cadetti, erano quindi spinti all’avventura per integrare le magre finanze.
Tanti nel tempo tra i comandanti alleati o avversari di Anichino di Bongardo, come lui d’altronde, avevano questa stessa provenienza d’origine tedesca. Così Werner von Urslingen, conosciuto in Italia come duca Guarnieri, che sulla sua insegna d’argento aveva fatto scrivere: «Duca Guarnieri, signore della Gran Compagnia, nemico di Dio, della pietà e della misericordia» o Konrad Wirtinger von Landau detto Conte Lando, che massacrò la città di Savigliano nel 1360 o Alberto Sterz da Colonia che i perugini, accusandolo di tradimento a favore del cardinale e condottiero Egidio Albornoz, arrestarono e poi decapitarono. Talvolta insieme, talvolta avversari saranno tra i protagonisti di questo secolo tormentato e complicato che fu il Trecento. Un secolo bifronte, come una moneta.
Negli ultimi secoli precedenti l’Europa e l’Italia avevano goduto di un progressivo periodo di crescita.
Gli uomini innalzavano lodi e ringraziamenti a Dio per un mondo da lui creato dove con intelligenza si poteva vivere bene. Diffusa era una preghiera: «Proteggici, o Signore, dalla fame, dalla malattia e dalle guerre».
All’inizio del Trecento l’Europa cristiana era al massimo della popolazione, delle terre coltivate, del numero e grandezza delle città, della circolazione monetaria e commerciale, della produzione industriale.
Le previsioni di sviluppo continuo però non si sarebbero realizzate. L’Europa stava per cominciare a vivere una profonda crisi di crescita che si sarebbe manifestata nell’arco di una sola generazione, quella vivente a cavallo dell’inizio del secolo XIV. Proprio questo mondo cominciava a manifestare qualche crepa.
Il primo intoppo riguardò i raccolti. Tutti gli uomini sapevano perfettamente fin dall’antichità che, pur con qualche sacrificio, si poteva ancora mangiare dopo un’annata disastrosa. Di solito gli amministratori delle città accumulavano nei magazzini delle riserve che venivano distribuite proprio in quella eventualità. Più problematica la situazione dopo un secondo anno consecutivo, azzerate ormai quasi del tutto le riserve. In questo caso l’impatto della fame colpiva in primo luogo gli elementi più deboli o poveri, gli anziani ed i bambini, che, denutriti, erano soggetti a morire per primi.
Purtroppo, tra il 1315 e il 1317, tre anni di freddo e pioggia impedirono i lavori agricoli. Fu una catastrofe per la ricca Europa.
Il fatto è che gli uomini del tempo non potevano rendersene conto ma era cominciata quella che gli studiosi chiamano la Piccola era glaciale che doveva durare fino alla metà dell’800, caratterizzata dall’aumento dei ghiacciai. Il clima impazziva, con piogge continue, alluvioni e freddo, tanto freddo, impensabile per l’uomo d’oggi. Nel gennaio 1709 a Parigi il vino si venderà a blocchi e la laguna di Venezia resterà ghiacciata per settimane.
Ciononostante gli uomini del Trecento non si diedero per vinti e sorprende ancora oggi la loro determinazione e voglia di combattere per la vita. Migliorarono gli attrezzi agricoli, inventarono nuove tecniche e nuovi aratri, si sperimentarono nuove varietà di grano, si aumentò con il disboscamento l’estensione delle terre, ora meno produttive, da coltivare.
Nello stesso tempo grandi cattedrali continuavano a sorgere con il lavoro e le offerte di tutta la popolazione, i mercanti estendevano il loro raggio di azione, i palazzi e le chiese si abbellivano grazie all’opera di grandi artisti. Senza saperlo, si stavano ponendo le basi del nostro grande Rinascimento.
Però, proprio questa magnificenza delle corti italiane attirava avventurieri a frotte, avidi di ricchezza e onori, pronti per questo ad affrontare pericoli di ogni genere.
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