Lettere (1955-1966)
Gli Autori
Alejandra Pizarnik nacque a Buenos Aires nel 1936, in una famiglia di immigrati ebrei di origine russa e slovacca. Nel 1954 si iscrisse alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Buenos Aires ma non terminò i suoi studi. Avida lettrice già in giovanissima età, pubblicò il suo primo libro, intitolato La terra più estranea, nel 1955. A questo seguirono L’ultima innocenza, nel 1956, e Le avventure perdute, nel 1958. Tra il 1960 e il 1964 visse a Parigi, dove collaborò con diverse riviste e quotidiani. A quel periodo risale la sua amicizia con Julio Cortázar, André Pieyre de Mandiargues, Cristina Campo e Octavio Paz, che scrisse il prologo alla sua quarta raccolta di poesie intitolata Albero di Diana (1962). Nel 1964 tornò a Buenos Aires e pubblicò le sue opere più conosciute: I lavori e le notti (1965), Estrazione della pietra della follia (1968) e L’inferno musicale (1971). Nel 1954 Pizarnik iniziò a scrivere un diario che l’accompagnò fino agli ultimi giorni della sua vita. Nel 1972, all’età di trentasei anni, morì nella stessa città in cui era nata.
León Ostrov (1909-1986) è stato un importante psicoanalista e scrittore argentino. Ha conseguito la laurea in Filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Buenos Aires, completando poi la sua formazione presso l’Associazione Psicoanalitica Argentina, di cui fece successivamente parte come docente. In qualità di saggista ha riflettuto sui legami tra cultura, filosofia, psicoanalisi e letteratura. Alcuni dei suoi scritti sono apparsi nel volume Verdad y caricatura del psicoanálisis (Ábaco, 1980).
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I testi
Alejandra Pizarnik
León Ostrov
Lettere (1955-1966)
A cura di Andrea Ostrov
Traduzione dallo spagnolo
di Antonio Di Gennaro
e Monica Liberatore
ISBN-13: 978 88 7536536-3
2024
pp. 98
cm 14×21
€ 16,00
Lettera N. 3
Caro León Ostrov,
Non sa quale sforzo mi richieda scriverle, è impossibile esprimerlo a parole. Da molto tempo le scrivo lettere e le strappo, dicendomi: no, non è questo ciò che volevo dire. La cosa peggiore è rileggerle il giorno: non riesco mai a riconoscermi. Ma ora sono seduta al Café de Flore, vicino all’ufficio postale, e invierò queste righe, anche se so che me ne pentirò. Ho ricevuto la sua lettera e l’ho letta e riletta. Lei ha suscitato in me il forte desiderio che la mia prossima lettera fosse gioiosa, un messaggio di pace, serenità, benessere. Tout va bien! E che, leggendola, lei pensasse: ha fatto benissimo ad andare a Parigi. Ma non è ancora possibile. E forse non lo sarà mai. Sto toccando il fondo della mia follia. Le allucinazioni si moltiplicano, ora con paura: cosa farò quando mi immergerò nei miei mondi fantastici e non riuscirò a risalire? Perché prima o poi dovrà accadere. Me ne andrò e non saprò tornare. Inoltre, non saprò nemmeno che esiste un “saper tornare”. E forse nemmeno lo vorrò. Ecco perché disegno ogni giorno. Paura del mio isolamento, della mia indifferenza, del mio sognare passivamente. Sono innamorata di questa città. Guardo, vedo, cammino. Non sto ferma. Tuttavia, non sono mai stata così consapevole della mia malattia, dei miei limiti.
Questa lettera richiede un’enorme fatica da parte mia. È da tanto tempo che non parlo ‒ e per me parlare vuol dire parlare di me ‒ è da tanto tempo che non sorrido, che non dico sciocchezze alla mia dannata famiglia, o frasi spiritose alle poche persone che incontro, o bugie nella corrispondenza con i miei genitori. Da tanto tempo non pronuncio la parola “io” e non parlo delle mie miserie. E avrei tanto voluto, certo, che la mia lettera fosse euforica e piena di stupore. Ma, affinché questo accada, dovrebbero prima uccidermi: “non riusciranno a liberarmi dalla mia sofferenza”… Ho fatto molte cose stupide, ho bevuto tanto, ho speso tutti i miei soldi, e ora non so che fare, anche se la cosa non mi angoscia troppo. Il mese scorso sono andata a vivere in un albergo e poi sono dovuta tornare chez mon oncle, perché non potevo permettermelo. Ma che importanza può avere il denaro, se sto combattendo corpo a corpo con il mio silenzio, il mio deserto, la mia memoria in frantumi, la mia coscienza devastata. Anche il mio corpo mostra i segni di questa battaglia: sto male perché bevo e, quando sto male, bevo. Inoltre, ho scoperto che il cioccolato mi nuoce, quindi è diventato un bisogno simile a una droga. A volte vado a rintanarmi in un cinema per sfuggire, per qualche ora, ai miei bisogni, alle mie pulsioni viziose. Mi chiedo perché non provi vergogna di confidarle queste miserie.
Ricevo lettere nostalgiche e affettuose da mia madre: vuole che torni. Fino a qualche giorno fa, anch’io volevo tornare. Il motivo? La mia calorosa corrispondenza con Susana, basata essenzialmente sull’umorismo nero. Ma da due settimane non mi scrive più, e questo mi fa provare un odio profondo per lei. Il bello è che non mi interessa tanto quello che mi scrive, quanto il fatto che mi scriva. Che non mi dimentichi. Questo potrebbe essere utile per un lavoro sulla psicologia del vigliacco: colui che si logora nei suoi sforzi, cercando di trattenere e impedire l’inevitabile. Inoltre, sempre a proposito di Susana, il suo silenzio mi frena dal voler tornare.
Le scrivo con grandi sforzi. Mi sento piuttosto male e probabilmente l’unico posto in cui vorrei essere è la mia cameretta a Buenos Aires, a letto, con la testa sotto le coperte. Forse pretendo troppo da me stessa, come se fossi il tirannico impresario di un cantante ‒ io ‒ che non vuole cantare. Ma alla fine mi chiedo se tutto questo non sia in qualche modo positivo. Magari mi farebbe bene affrontare le mie illusioni una volta per tutte (quanto è irreale tutto questo: non esiste una cosa come “una volta per tutte”).
Questa lettera sembra essere opera di un fantasma. Non c’è sangue in essa. Non si incarna in nessuna azione, in nessun evento preciso o in un nome proprio. Ma si avvicina, in parte, alla verità. Perciò la invio, prima di rileggerla e strapparla. A presto. Abbracci a lei e ad Aglae,
Alejandra
8, av. CHASTENAYE
CHATENAY-MALABRY SEINE
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